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Rimanete in me e io in voi
a cura di Mons. Antonio Riboldi
La gentilezza di un uomo tante volte si misura dalla profondità con cui sa tessere i rapporti con chi gli è vicino o incontra casualmente sulla strada della vita.
Rapporti che, non solo diventano poi condivisione in tutto, ma costituiscono salde fondamenta su cui poggiare serenamente un'amicizia. La fiducia, che è essenziale in questo modo di stare insieme o vicino, oltre che un dono, è la forza del rapporto stesso.
Invece l'inconsistenza di un uomo è nella superficialità dei suoi sentimenti. Questi possono, apparentemente, avere manifestazioni chiassose, che sono la 'recitazione di chissà quale amore, ma di fatto sono effimeri e non vanno al di là delle parole, espressioni di facili effusioni, ma per niente consistenti per porvi la nostra fiducia.
Ci definiamo tante volte 'amici', sperando di poter 'posare il nostro capo sul petto' dell'altro, come fece l'evangelista Giovanni nell'Ultima Cena, con Gesù, ma spesso incontriamo uno spaventoso vuoto, che rivela la misura dei rapporti, la profondità dell'amicizia, che sono solo un girare attorno alla grande e necessaria realtà del vero amore.
Qui, proprio qui, è uno dei grandi dolori che soffrono tanti: sentirsi soli, non abbastanza amati, mancando la profondità della fiducia e condivisione, necessaria come l'aria all'amicizia.
Giovanni, l'apostolo, lui, che era stato 'il discepolo che Gesù amava tanto', scriveva alle prime comunità cristiane: 'Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. In questo conosceremo che siamo nella verità e davanti a Lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da Lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato". (1 Gv. 3, 18-24)
Sono parole chiare, che non dovrebbero avere bisogno di commento. Il comandamento di Dio è che ci dobbiamo voler bene, senza alcuna distinzione o eccezione, verso quanti il Signore ci fa incontrare nella vita o sulla strada. L'amore cristiano non può fermarsi alle parole: queste sono troppo facili da pronunciare e possono illuderci di avere adempiuto il comandamento della vita.
Ma è anche vero che se le parole di amore che si dicono tutti i giorni - forse troppe, tenuto conto che il vero amore ama il silenzio e la gioia di donarsi senza troppo rumore - fossero vere, fossero anche solo una boccata di aria buona, avremmo un mondo senza troppe nuvole, di una serenità primaverile.
La realtà, purtroppo, è spesso diversa: sovrastati dal troppo rumore, le parole d'amore diventano vuote di verità e, soprattutto, prive di gesti concreti di amore... ed è buio pesto!
'Dobbiamo amare con i fatti e nella verità', questo è il senso o la vera natura della vita - vero dono di Dio: amare tutti senza eccezioni e senza misura, nel silenzio della gratuità.
Sono i momenti in cui si sente la grande forza, davvero dono di Dio, di aprirsi senza riserve. Sono esperienze di vita in pienezza, che non si dimenticano, perché evidenziano qual è la verità della nostra realizzazione e divengono un pungolo per continuare il cammino...
Una tappa di esso fu, nella mia vita, quando in Sicilia, nel 1968, il Belice fu colpito da un terribile terremoto, che fece piazza pulita di tanti paesi. Ricordo come quella notte, uscendo, dopo essermi salvato per caso (o Provvidenza!) con i miei confratelli, guardando la bella Chiesa Madre, divenuta un disordinato ammasso di rovine, non trovavo parole per esprimere la sofferenza e l'amarezza.
Guardavo il punto dove con tanta cura avevamo ristrutturato il presbiterio e l'altare: era tutto sconnesso, un mucchio di macerie. Quello che mi svegliò da quel momento di dubbio e dolore, fu constatare che là sotto c'era il tabernacolo con le sante ostie: Dio, anche Lui, come noi, era finito sotto le macerie.
Fu un lampo interiore: Dio davvero viveva con noi, partecipava della nostra vita. Con i miei confratelli riuscimmo a 'salvare' il SS.mo in una pisside. Ma come se Lui ci volesse ammonire, subito giunse un giovane, che collaborava con noi, chiedendo il nostro aiuto, perché la sua famiglia, poco lontana, era rimasta intrappolata sotto le macerie. Le nostre incertezze furono dimenticate e subito sostituite dall'amore. Rischiando tanto raggiungemmo la famiglia ferita e, da quel momento, le giornate non conobbero soste, nel cercare di dare un valore al dolore. E la sofferenza si tramutò in gioia: la gioia di Vivere per amare.
Un amore che non si inventa, ma a cui ci eravamo educati nella vita religiosa e nella condivisione con la nostra Comunità parrocchiale. Servire era il modo di amare: non si possedeva più nulla, ma vi era la grande possibilità di donare se stessi agli altri, nel nome di Gesù. Questo fu il senso vero e bello della nostra presenza. Un poco come tante mamme o papà, che nella famiglia trovano la ragione della loro felicità, donandosi ed impegnandosi per la crescita dei figli.
Se togliessimo la bellezza dell'amare, la vita perderebbe ogni ragione d'essere, ogni 'gusto'.
Gesù, nel Vangelo di oggi, ci insegna qual è il fondamento dell'amore vero, sincero, stabile e duraturo, che 'porta frutto': 'Rimanete in Me'.
"Gesù disse ai suoi discepoli: 'Io sono la vera vite e il Padre è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto lo toglie e ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può fare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se voi rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate frutto e diventiate miei discepoli". (Gv. 15, 1-18)
È davvero necessario il richiamo di Gesù 'a rimanere in Lui e Lui in noi '.
È l'unica scuola dell'amore, che porta i suoi frutti.
E Dio solo sa quanto oggi sia urgente riportare la gioia dell'amore nelle famiglie, nelle Comunità, ovunque, perché questi diventi il sorriso della vita e del mondo!
Ma dobbiamo voler uscire da un nefasto individualismo, che nulla ha a che fare con la nostra vocazione profonda all'amore: amare ed essere amati.
C'è tanto campo, oggi, per seminare amore: nelle famiglie, nelle comunità, ma anche in tante povertà e solitudini che vivono vicino o lontano. Non abbiamo paura di fare dono del sorriso di Dio, aprendo cuore e mani alle necessità dell'altro, chiunque sia: è la sola nostra nobiltà, come ci è confermato dalle parole sempre attuali del nostro caro Paolo VI.
'La carità esiste. I suoi segni sono, per fortuna, dappertutto: nelle nostre istituzioni di assistenza, nelle nostre case di cura agli infermi, nelle nostre scuole, nella formazione cristiana dei fanciulli, dei giovani all'opera buona, nelle missioni; e se davvero uno spirito di carità suggerisce queste molteplici attività, Cristo vi appare, perché sono cristianesimo vissuto. E anche quando l'intenzione religiosa non fosse palese, ma palese è la bontà dell'azione, come avviene in aiuto alle popolazioni colpite dalle tremende alluvioni, non scorgiamo noi nel sentimento generoso e nel gesto fraterno di tale solidarietà uno stile, un'umanità, che ci dicono essere, almeno in queste nobilissime manifestazioni, tuttora cristiana la nostra civiltà. I «segni» lo dimostrano.
E per noi credenti hanno poi questo di bello simili atti di generosità e di carità, che tutti li possiamo compiere con quello spirito che li trasfigura; tutti abbiamo una certa capacità di fare della nostra Chiesa, a cui abbiamo la fortuna di appartenere un segno; un segno di Cristo; di rendere così presente Cristo nel nostro tempo e nel nostro ambiente. Lo dice il Concilio: «Lo spirito di povertà e di carità è la gloria e la testimonianza della Chiesa di Cristo» (Gaudium et Spes, 88).
A voi, figli carissimi, l'invito a moltiplicare questi segni di sovrumano valore: ne godrà l'anima che li compie; ne godrà il fratello che li riceve, ne godrà il mondo che li ammira; ne godrà la Chiesa, che si ritrova felicemente di Cristo. (9 novembre 1966).