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La donna Cananea si mise a gridare
A cura di P. Raniero Cantalamessa
Gesù, nel corso di quel medesimo viaggio durante il quale aveva moltiplicato il pane e camminato sulle acque, arriva verso le parti di Tiro e Sidone, cioè in territorio abitato da pagani, da non giudei. (Oggi Tiro e Saida del Libano). Qui gli viene incontro una donna Cananea, cioè una discendente del popolo che abitava la Palestina prima della conquista degli Ebrei. Una pagana dunque. Si mette a gridare: “Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio”.
Ed ecco la prima doccia fredda. Gesù, è scritto, “non le rivolse neppure la parola”. Intervengono gli apostoli a intercedere in suo favore, non tanto per amore della donna, quanto perché ella continua ad andare loro dietro. “Esaudiscila -gli dicono-: non vedi come ci grida dietro?”. Secondo netto rifiuto di Gesù: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele”.
Al rifiuto, la donna risponde intensificando la preghiera: “Signore, ti prego, aiutami!”. Terza parola dura: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”. Chiunque, a questo punto, sarebbe scappato esasperato. Non la Cananea. Ella ingigantisce a ogni nuova riga del Vangelo: “È vero, Signore, replica, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei padroni”.
Gesù, che si è contenuto a fatica fin qui, non resiste più e grida pieno di gioia, come farebbe un tifoso, dopo un salto da record mondiale dell’atleta del suo cuore: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri!” “E da quell’istante, nota il Vangelo, sua figlia fu guarita”. Ma cosa è avvenuto nel frattempo? Un altro miracolo, ben più grande della guarigione della figlia. Quella donna è diventata una “credente”, una delle prime credenti provenienti dal paganesimo.
Se Gesù l’avesse ascoltata alla prima richiesta, tutto quello che avrebbe conseguito la donna sarebbe stata la liberazione della figlia. La vita sarebbe trascorsa con qualche fastidio in meno. Ma tutto sarebbe finito lì e alla fine madre e figlia sarebbero morte senza lasciare traccia di sé. Invece così si parlerà di questa anonima donna pagana fino alla fine del mondo.
Quante cose ci insegna questa semplice storia evangelica! Forse Gesù ha preso lo spunto proprio da lei nel proporre la parabola della vedova importuna sulla “necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”.
Non pretendiamo di spiegare il perché ultimo di tante preghiere inascoltate, resta un fondo di mistero per noi, però una cosa almeno possiamo dire. Dio ascolta anche quando...non ascolta. Il suo non ascoltare è già un soccorrere. Ritardando nell’esaudire, Dio fa sì che il nostro desiderio cresca, che l’oggetto della nostra preghiera si elevi; che dalle cose materiali passiamo a quelle spirituali, dalle cose temporali a quelle eterne, dalle cose piccole passiamo a quelle grandi. In tal modo egli può darci molto di più di quanto inizialmente eravamo venuti a chiedergli.
Spesso, quando ci mettiamo in preghiera, noi somigliamo a quel contadino di cui parla un antico autore spirituale, Doroteo di Gaza. Egli ha ricevuto la notizia che il re in persona lo riceverà. È l’occasione della vita: potrà esporgli a viva voce la sua petizione, chiedere la cosa che vuole, sicuro che gli verrà concessa. Arriva il giorno fissato, il buon uomo, emozionatissimo, entra alla presenza del re, e che cosa chiede? Un quintale di letame per i suoi campi! Era il massimo a cui era riuscito a pensare. Noi, dicevo, ci comportiamo a volte con Dio alla stessa maniera. Quello che gli chiediamo, in confronto a quello che potremmo chiedergli, è solo un quintale di concime, cose piccole, che servono per poco, che anzi a volte potrebbero perfino ritorcersi a nostro danno.
Oltre che sulla preghiera, l’episodio della Cananea contiene un insegnamento importante anche sulla persona di Cristo. Oggi, nello sforzo lodevole di sanare le ferite esistenti nei rapporti tra cristiani ed ebrei, qualcuno propone questo tentativo di soluzione: Cristo è, sì, il Messia, l’inviato di Dio, ma per i pagani, non per i giudei. Egli sarebbe venuto per estendere la rivelazione e l’alleanza biblica ai gentili, non per gli ebrei che possedevano già queste cose. Si adduce a conferma la parola di Cristo agli apostoli prima di salire al cielo: “Andate dunque ammaestrate tutte le nazioni…”, come se intendesse tutte le nazioni eccetto Israele.
È un tentativo assurdo, giustamente rifiutato dalla maggioranza degli stessi ebrei. Gesù stesso, abbiamo sentito, dice alla Cananea di essere stato mandato anzitutto per le pecore perdute d’Israele; tutto il suo insegnamento risulta incomprensibile se lo si vede come destinato ai pagani e non ai suoi ascoltatori immediati. Staccare Gesù dal popolo ebraico significa, a mio parere, non amare né Gesù né il popolo ebraico; non significa fargli un favore ma un torto immenso, sottraendogli colui che il vecchio Simeone definì “luce delle genti”, ma anche “gloria del suo popolo Israele”.
Liberi naturalmente gli ebrei di accettarlo o meno come Messia (e responsabili noi cristiani di aver reso tale accettazione immensamente più difficile con quello le sofferenze inflitte a tale popolo nella sua storia), ma nessuna motivazione, per quanto buona, dovrebbe indurci al punto di falsificare i dati del vangelo, pensando così di riparare le colpe commesse.