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L'IMPRESCINDIBILE BISOGNO DI DIO
a cura di Mons. Carmine Scaravaglione
- 06 maggio 2002-
Riprendiamo le nostre settimanali riflessioni - sperando di essere puntuali - gettando uno sguardo in tempi e culture più lontane di quelli che abbiamo passato in rassegna nella prima serie di conversazioni sulle tracce di Dio.
Vogliamo cominciare dall'antica Grecia, la patria della filosofia intesa come scienza, ma anche la patria di quei grandi poeti e tragici le cui opere, anche oggi, rappresentano non solo capolavori letterari di tutta l'umanità ma ci danno lo spunto per capire che cosa ha pensato di Dio (o degli dèi) quel popolo le cui orme sono incancellabili.
Sappiamo tutti come i Greci abbiano popolato il cielo di una gerarchia di divinità: da Zeus fino ai semidei, alle ninfe, ai mitici eroi figli di uomini e di dèi. Là, sull'Olimpo perennemente ammantato di nubi, essi avevano fissato le sede dei Celesti che, beati e immortali, ( ma a volte anche tristi, addolorati, impotenti sotto il dominio incontestabile del Fato) vi trascorrevano una vita senza tempo.
Questa moltitudine di divinità erano alla fonte di una normativa etica che obbligava gli uomini ad attenersi ad alcune esigenze fondamentali, peraltro iscritte nella stessa natura umana. Partendo però dai grandi tragici, Eschilo, Sofocle, Euripide, vedremo come neanche Zeus e gli altri suoi colleghi, riuscissero a dare un senso compiuto alla vita dell'uomo, al suo dolore, alla ineluttabilità della morte.
E' stato scritto che "le grandi tragedie greche.sono la celebrazione eloquente dello scacco di una vita assurda. Esse presentano l'uomo davanti al rischio della precarietà esistenziale senza possibilità di riscatto". (F: Gioia, "Il coraggio di sperare contro ogni speranza", Ed. Paoline, 2001,pag. 13).
Su tutti, anche sugli dèi, dominava il FATO, una forza cieca e misteriosa che colpiva e puniva chiunque tentasse di passare i limiti da esso determinati.
I protagonisti delle tragedie - come vedremo - subiscono l'ereditarietà della colpa e, anche se ignari di averla commessa, sono sotto il peso di terribili maledizioni.
Sofocle, Eschilo, Euripide hanno scandagliato il cuore umano e ne hanno rilevato ciò che in esso vi è di incredibile e di paradossale; hanno messo a nudo quanto di misteriosamente paradossale vi sia nei rapporti umani e, pur con accenti, situazioni, punti di vista diversi, hanno cantato l'assurdo e grottesco agire degli dèi.
Nell'agire umano, cantato dai tre Grandi appena citati, c'è comunque lo sforzo dell'uomo, il suo coraggio, nell'affrontare il rischio della vita nella sua incomprensibile precarietà, nell'ineluttabilità della colpa, nell'impatto quotidiano con il dolore.
Se volessimo riassumere, (prima di affrontare, nelle prossime puntate, i temi specifici dei tre tragici greci) potremmo dire che la concezione di Eschilo (525-456), pur caratterizzato da una religiosità profonda e da un'alta moralità, può essere sintetizzata nel verso 1327 dell' "Agamennone": " La felicità è come il sogno di un'ombra". Il principio centrale poi dell'etica eschilea è la maledizione degli dèi che si abbatte non solo su chi commette la colpa ma anche sulla sua discendenza.
Sofocle (495-406) dal canto suo, pur se ricco, onorato e longevo più che gli altri, è il più disperato dei poeti dell'antica Grecia. Il verso 1187 dell' "Edipo Re" sembra anticipare quanto poi diranno i maestri del "nichilismo"dei tempi moderni: "L'esistenza è uguale al nulla". Cantore del dolore senza sbocco e senza senso.
Euripide infine (480-406) fu ritenuto addirittura ateo perché al verso 1346 dell' "Eracle", si scaglia contro gli dèi dell'Olimpo chiamandoli "vane ciance dei poeti". Ma, a suo modo, Euripide è un ricercatore di Dio: Sono gli dèi mitologici che non lo soddisfano, che lo nauseano: Va in cerca di un dio che non sia cattivo, non nutra rancore contro gli uomini, perché è troppo facile, per questo dio, (o per questi dèi) scagliarsi contro gli umani, forti della loro potenza e consci della intrinseca fragilità di ogni uomo.
Se vogliamo comunque citare un suo verso paradigmatico, che ne riassuma la concezione antropologica, citiamo il verso 506 de "Le Baccanti": "Tu non sai cosa vuoi, cosa fai, chi sei".
E' affascinante leggere le tragedie di questi sommi artisti, che hanno impregnato di sé i secoli posteriori alla loro vita. In quanto hanno scritto, e che mettevano in scena dinanzi al popolo che cercava di capire a che cosa servisse la vita, il dolore, la morte, c'è la sofferenza della ricerca di un "ubi consistam" o, se si vuole, la preparazione a quanto poi farà la Rivelazione ebreo-cristiana, capace di dare all'uomo le risposte tanto attese.
Alla prossima settimana la continuazione di queste riflessioni.Si cercherà di analizzare, traendole dalle loro opere, il cammino faticoso, ma pur sempre coraggioso, lungo i labirinti del pensiero umano, di questi tre colonne della cultura greca, attuali forse anche oggi per farci riflettere sul dono immenso della Rivelazione da parte di quel Dio che Platone si augurava desse segno della sua esistenza e della sua presenza.
Carmine Scaravaglione