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I TRAGICI GRECI: ESCHILO
"La felicità è come il sogno di un'ombra"
(da "Agamennone", v. 1327)
a cura di Mons. Carmine Scaravaglione
- 13 maggio 2002-
E' il primo della grande triade greca, Eschilo, vissuto dal 525 al 456 a.C., che raccoglie negli anfiteatri della sua patria la folla che accorre non tanto per lo spettacolo ma per sentire le risposte ai grandi temi che, sempre, hanno assillato il cuore e l'intelligenza dell'uomo.
C'è in Eschilo una profonda religiosità, forse perché nativo di Eleusi, il centro cioè dei "culti misterici" che abbondavano nell'antica Grecia. Questi culti comportavano una specie di consacrazione ad alcune divinità particolari; queste, in cambio, assumevano come un impegno per assicurare ai loro "consacrati" una buona dose di felicità su questa terra ma soprattutto, dopo la morte, la felicità ultraterrena.
Le folle che accorrevano numerose seguivano con ansiosa attenzione quanto sulla scena si diceva; le parole dei vari personaggi ma soprattutto del coro, entravano nelle menti perché, attraverso il genio dell'Autore, venisse svelato qualche brandello di mistero.
Molte tragedie scrisse Eschilo. Ne rimangono però soltanto sette che citiamo per comodità del lettore. "Le Supplici", "I Sette contro Tebe", "I Persiani", "Prometeo incatenato", e la famosissima trilogia: l' "Orestiade" che abbraccia le tre tragedie: "Agamennone" - "Coefore" - Eumenidi". Di un'altra tragedia, "Prometeo liberato", restano pochi frammenti.
Al centro dell'etica eschilea - come si è accennato nell'introduzione dell'ultimo articolo su questo sito - è il concetto che l'uomo, proprio perché tale, è soggetto alla colpa, al peccato, a macchiarsi di tanti delitti. Gli dèi colpiscono chi pecca con la loro maledizione che ricade non solo su chi, personalmente, ha peccato ma anche sui suoi discendenti. C'è pertanto, nei protagonisti delle sue tragedie, questa consapevolezza di una colpa che non lascia immune neppure chi verrà dopo di loro; li vedrà anzi accomunati in un groviglio di maledizioni a cui nessun dio potrà sottrarli. Questa è la dura legge del Fato.
L'esistenza umana pertanto è uno scacco continuo, un fallimento e Prometeo, come risulta proprio dal "Prometeo incatenato" è la personificazione di questo fallimento totale.
Seguiamo, sulle orme del libro "Il coraggio di sperare contro ogni speranza" di Francesco Gioia (Ed. Paoline 2001) la tragedia di Prometeo, il titano che avendo dato agli uomini il fuoco, contro il volere del dio supremo, Zeus, è condannato a vivere in una condizione tragica: incatenato ad una roccia e tormentato da un avvoltoio che gli divora il fegato che sempre ricresce per essere nuovamente divorato.
Ermes, il "maggiordomo di Zeus" gli ricorda che ha peccato consapevolmente e che "i suoi gesti d'arroganza lo hanno fatto approdare a questi mali". Eppure il donare il fuoco agli uomini è stato un gesto di aiuto a chi, per mancanza del fuoco, soffriva e moriva. Questo non gli vale a nulla. Nel cuore di Prometeo c'è la segreta speranza di abbattere il potere di Zeus divulgando una notizia che egli custodisce segretamente. Per questo, allo stesso Ermes che gli ingiunge di rivelargli il segreto, egli risponde: "Io non mi piegherò, io non dirò chi deve rovesciarlo dal potere".
Un terribile terremoto, scatenato da Zeus contro il titano, fa si che questi venga inghiottito nell'abisso della terra, senza ottenere il perdono. Prometeo resta, nella sua solitudine e nella sua impotenza come l'eroe che non si è sottomesso al volere divino. Nonostante il bene fatto ai mortali, la sua esistenza è stato uno scacco.
Nella trilogia dell' "Orestiade", si narra di Agamennone, il re di Argo, il quale per ricondurre al fratello Menelao la moglie adultera, fuggita a Troia con Paride, trascina in guerra tutte le città della Grecia e, per ottenere la vittoria, non esita a sacrificare agli dèi la figlia Ifigenia.
Dopo dieci anni di guerra, Troia cade per il tranello di Ulisse ed una dei cinquanta figli di Priamo, Cassandra, divenuta schiava di Agamennone, predice, senza mai essere creduta, i tragici eventi che seguiranno.
Clitennestra ucciderà infatti il marito Agamennone per vendicare l'uccisione della figlia: Si innesca pertanto una serie ineludibile di delitti, la cosiddetta "nemesi" per cui ogni delitto è la vendetta del precedente e così via. "Oh! La sorte degli uomini! La loro felicità è come il sogno di un'ombra.".
Se Agamennone ha ucciso Ifigenia, Clitennestra ha ucciso Agamennone. Oreste non può non vendicare il padre ed uccide la madre insieme all'amante Egisto. E' colto comunque da un sentimento di orrore per ciò che ha fatto ed è perseguitato dalle "Erinni" che, come cagne rabbiose, ululano contro di lui. Oreste fugge perché sente il bisogno di purificarsi: Giunge al santuario di Delfi e chiede aiuto al dio Apollo.
Proprio Apollo lo difende dalla dodici furie. Viene giudicato da un consesso di saggi che lo assolvono e così le Erinni, placate da Atena, accettano il verdetto e diventano "Eumenidi", cioè "benigne".
L'assoluzione di Oreste comunque non lo giustifica. Egli è responsabile personalmente del matricidio che ha compiuto sapendo ciò che faceva. D'altra parte non poteva sottrarsi ad esso perché istigato dagli dèi. E' libero o no di agire? Se lo chiedevano gli spettatori, ce lo chiediamo anche noi.
LO scacco dell'esistenza è palpabile anche nella trilogia dove tutta la vita dell'uomo - simboleggiati nei protagonisti - si riduce a follia: la follia di Agamennone che uccide la figlia; la follia di Clitennestra che uccide il marito; la follia di Oreste che uccide la madre e l'amante. Una follia lucida eppure necessaria.
Cosa avranno pensato le migliaia di spettatori dopo aver visto lo spettacolo?
Eppure anch' essi tendevano alla felicità. Vagheggiavano una vita dove il dolore e la morte avessero un significato. Dove la libertà personale potesse tradursi in atti responsabili, sia nel bene che nel male.
L'intrecciarsi continuo delle azioni umane con il volere degli dèi costituisce la trama della vita dell'uomo che, pur aspirando ad una propria dignità, anche nel delitto, sembra continuamente menomata dalle intrusioni divine.
Ciò nonostante, lo sforzo di questi geni, nel cercare di sondare il mistero dell'uomo è un avvicinarsi al mistero di Dio che, nel Verbo, rivelerà all'uomo le strade della salvezza: Dio ama l'uomo, l'uomo tende a Dio. La felicità altro non è che il possesso del Sommo Bene come intuirà Platone, come dimostrerà Gesù Cristo.
Carmine Scaravaglione