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I TRAGICI GRECI: SOFOCLE
"L'esistenza è uguale al nulla" (verso 1187 da "L'Edipo Re")
- 3 giugno 2002-
a cura di Mons. Carmine Scaravaglione
Visse dal 495 al 406 il secondo grande poeta tragico della Grecia, forse il più disperato, nonostante la sua ricchezza e la sua longevità.
Come per Eschilo ci rimangono sette tragedia così anche per Sofocle: l' Aiace, l'Antigone, l' Elettra, l' Edipo Re, Le Trachinie, Filottete, l' Edipo a Colono.
Leit-motiv e paradigma delle sue tragedie, il dolore della natura, soprattutto il dolore dell'uomo, un dolore però senza senso e senza esito. I suoi personaggi sono la statue eterne dell'infelicità esistenziale in cui l'uomo si dibatte, pur sentendo, in sé, una sete di felicità che, purtroppo, non potrà mai essere saziata.
La grandezza dei suoi personaggi non si misura né dal ruolo che essi ricoprono né dai loro potere. Essi tanto più sono grandi quanto più grande sono le prove del loro dolore.
L'assurdo, il nulla, la vacuità, l'attesa nichilistica di qualcosa che non verrà mai: in tutto ciò si risolve la vita umana.
Molti e molti secoli dopo, ci sembra di sentire il grido di Foscolo. Siamo irrimediabilmente sospesi sull'abisso del nulla. Anche se, in Foscolo, spesso fanno capolino i valori cristiani che non poteva non avere, in qualche modo, assorbiti.
L' Edipo Re è certamente la più conosciuta tra le tragedie di Sofocle. Di essa però parleremo alla fine. Mi piace cominciare con l' Antigone perché questa può essere considerata come la continuazione dei Sette contro Tebe di Eschilo.
In questa tragedia, Eschilo narra le sciagure della stirpe di Laio che, nonostante il divieto di Apollo di procreare, disobbedisce. Per questa disobbedienza una terribile maledizione scende su di lui e su tutta la sua discendenza.
IL figlio che non doveva essere generato, si chiama Edipo. Questi uccide per errore il padre e sposa, senza saperlo, la madre Giocasta. Giunto al trono di Tebe e divenuto padre di quattro figli di cui i due maschi si chiamano Eteocle e Polinice, conosce la terribile verità su quanto è accaduto. Tenta di riscattarsi accecandosi e maledicendo i suoi due figli. Ma dinanzi agli dèì è un inutile riscatto perché sono immediate le conseguenze della maledizione. Eteocle e Polinice decidono di regnare un anno ciascuno. Inizia Eteocle che, scaduto l'anno, si rifiuta di cedere il posto al fratello. Scoppia la guerra; in essa, i nemici di Eteocle, sono guidati da sette condottieri, tanti quanto sono le porte della città.
La figura centrale della tragedie eschilea rimane Eteocle. Il padre Edipo aveva ucciso il padre e sposato incestuosamente la madre senza saperlo. Eteocle invece sa che diventerà fratricida, ma sa anche che non può fare diversamente perché la maledizione, nelle sua nemesi storica, deve compiersi per volere del Fato.
C'è, in Eschilo, un determinismo teologico: il contrasto tremendo tra l'innocenza di Eteocle e la catastrofe che non può non accadere.
Ed ecco come continua Sofocle ne l' Antigone.
Il nuovo re di Tebe, Creonte, fratello di Giocasta, dopo la morte dei due fratelli, Eteocle e Polinice, ordina -lo abbiamo già detto - solenni onori funebri per il primo e nega la sepoltura al secondo. Intervengono a questo punto le due sorelle di Eteocle e Polinice, Ismene e Antigone. La prima ritiene che si debba obbedire all'ordine del re perché, come donne, devono soltanto ubbidire. Antigone invece vuole onorare la memoria del fratello e decide di seppellirlo, perché è convinta che le leggi degli dèi sono superiori a quelle degli uomini.
Interessante è questa affermazione secondo cui le leggi morali sono innate nel cuore dell'uomo. "Non sono di oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero né da dove. E a violarle non poteva indurmi la paura di nessuno fra gli uomini, per poi renderne conto agli dèi". (Da "Antigone", vv. 450-460). Antigone ha il coraggio delle sue azioni, pur sapendo che cosa l'aspetta. Viene infatti condannata ad essere murata viva, nonostante Emone, figlio di Creonte e promesso sposo di Antigone, appassionatamente ne assuma la difesa. Ella viene condannata solo perché è sta "religiosa e pietosa". (Da "Antigone", v. 943).
In un succedersi temporale di disgrazie, Antigone si uccide impiccandosi, Emone si uccide sul cadavere della donna amata; Euridice, madre di Emone, si uccide anche lei facendo sì che lo stesso Creonte, ammettendo la sua colpa e invocando la morte, fa dire al coro che "la saggezza e la prima condizione per essere felici e che non bisogna mai commettere empietà contro gli dèi". (ib., vv 1347-1349).
Nessuno non può non vedere comunque la strano destino in cui si dibatte l'uomo, nella sua infelice esistenza: su di lui si abbattono la condanna degli dèi e, nello stesso tempo, non può sottrarsi a compiere ciò per cui verrà condannato. Una libertà, quella umana molto precaria se non inesistente, per cui i protagonisti o affrontano con il coraggio della consapevolezza il loro destino o finiscono con il cercare la morte che li libera da questa ineludibile contraddizione.
La tragedia più conosciuto di Sofocle è comunque l' "Edipo Re". La tesi di fondo della commedia è l'angoscia di un uomo potente contrassegnato però dalla disgrazia; un uomo che, senza sua colpa, diventa disperato. Edipo è un innocente, ma anche gli innocenti sono colpevoli e quindi sono infelici.
Sarebbe interessante narrare la trama della tragedia, sarebbe però troppo lungo.
L' "Edipo Re" è comunque "la tragedia dell'irreparabile infelicità umana" - come afferma G: Perrotta nella sua Storia della letteratura greca.
Significative, a tale proposito, sono le parole che canta il Coro: "Ahimè! Generazione dei mortali! Come la vostra esistenza è uguale al nulla! Quale uomo mai, quale uomo ha conosciuto altra felicità se non quella che s' immagina,per cadere nella sventura dopo questa illusione? Avendo il tuo esempio, sì la tua sorte, sventurato Edipo,nessuno dei mortali posso ritenere felice". ( da L' "Edipo Re",vv. 1186-1196).
Concludiamo queste riflessioni, come sempre, movendoci - per dirla con il Manzoni - "in più spirabil aere"; in quella dimensione giudeo-cristiana dove la libertà costituisce - è Dante che parla - "lo maggior don che Dio per sua bontade - fesse creando", dove l'uomo si assume le sue responsabilità ed il peccato ha una valenza personale, di libera scelta, di una decisione etica di cui egli solo è responsabile.
Carmine Scaravaglione