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I TRAGICI GRECI:EURIPIDE
"Non sai cosa vuoi, che fai, chi sei"
(da "Le Baccanti", verso 506)
a cura di Mons. Carmine Scaravaglione
- 01 luglio> 2002-
E’, tra i tre grandissimi tragici, quello che si ispira, molto spesso, al verismo più crudo, calando, nella realtà quotidiana, tutte le figure dei miti religiosi ed eroici.
Di Euripide – vissuto dal 480 al 406 – ci rimangono diciotto tragedie di cui le più belle ed importanti sono "Medea" e le "Baccanti", i suoi capolavori. Le altre più note sono "Alcesti", "Andromaca", "Le Troiane", "Ippolito", "Ifigenia in Tauride", "Ifigenia in Aulide", "Le Fenicie", "Elettra", "Oreste", "Eracle", "Elena" ed altre minori.
Nella sua polemica contro gli dèi, che spesso è feroce e determinata, Euripide si chiede: "Cos’è un dio? Cosa non è? Esiste qualcosa d’intermedio? Chi tra i mortali, può dire d’aver trovato, cercato, il termine estremo, se vede le azioni divine balzare qua e là, e di nuovo altrove, in gioco di opposte e imprevedibili sorti?".
La risposta, forse, si può trovare nell’ "Eracle" al verso 1346: "gli dèi sono vane ciance dei poeti!". E questo gli valse, da parte di molti, l’essere ritenuto ateo.
Al di là però di un suo presunto ateismo, forse c’è una ragione ben più profonda che lo spinge a tale linguaggio: l’esigenza umana del divino non può essere soddisfatta né esaurita dagli dèi presentati dai miti, veri fantocci olimpici che non riescono a dare un senso alla variegata esistenza umana, le cui trame sono talmente complicate e misteriose, che neanche gli immortali riescono a determinarne il significato e la meta.
E siccome sembra che la storia si ripeta, nei suoi cicli e nei suoi errori, Euripide può diventare la coscienza dell’uomo moderno che, più che adeguarsi a Dio, crea i suoi dèi e i suoi idoli a sua immagine e somiglianza.
"Penso che la gente di questo paese abbia trasferito alla dea la sua bassezza" – si legge nella "Ifigenia in Tauride" – "Nessun dio credo che sia cattivo". E nelle "Baccanti" continua: "I rancori degli uomini non si addicono agli dèi".
L’anima e l’intelligenza di Reuripide, sono sempre in bilico tra una "speranza" che non riesce, anzi non può mai diventare certezza. Il suo spirito tormentato e, diciamo anche, disperato, ha momenti di esltazione rasserenante, quando pensa agli dèi; quando però volge lo sguardo all’orizzonte umano, dove il male sembra imperare senza che nessuno – neanche gli dèi – riescano a contrastarlo, allora è invaso dal turbine della disperazione. La speranza si dilegua anche se, in altri momenti risorge per poi dileguarsi di nuovo.
C’è, negli uomini, un forte e perenne dissidio tra ragione e passione. La ragione vede il male ma la passione fa sì che la ragione venga offuscata dalla ricerca del piacere che mette a tacere le ragione della ragione.
Nell’ "Ippolito", la figura di Fedra, matrigna di Ippolito, mostra questo insanabile dissidio: Ella si toglie la vita perché, invaghitasi del figlio, da questi viene respinta. Ippolito è disgustato dalle oscene profferte della matrigna, perché sa che ciò che la madre gli chiede offende le ragioni delle leggi naturali.
E Fedra afferma lucidamente: "Non credo che gli uomini compiano il male perché la loro mente vi sia portata per natura: noi conosciamo ciò che è meglio e ne siamo consapevoli, ma non lo mettiamo in pratica; alcuni per pigrizia, altri perché antepongono al bene un qualche piacere". E Medea – nell’altra tragedia – conferma: "Conosco bene il male che sto per fare, ma la mia passione è più forte della volontà ed è essa la causa dei più grandi mali per gli uomini".
Euripide scopre anche il grande dramma dell’uomo: bramare una vita infinita – come si legge nell’ "Alcesti" – e tuttavia sapre che la vita è solo sventura, che il male è sempre presente, nei suoi aspetti multiformi.
Il re Ademeto riceve il dono dell’immortalità per l’ospitalità concessa ad Apollo, a patto che si trovi un’altra persona disposta a morire per lui. Nessuno, neppure i genitori di Admeto, accettano. Solo la moglie Alcesti offre le propria vita perché viva il marito. Ella offre la sua vita perché morire per un altro significa dimostrare veramente cosa significhi amare.
Eracle, ospitato anche lui da Admeto,in riconoscenza per questo, strappa la moglie Alcesti a Thanatos, e la restituisce al marito. Sembra che la ricomposizione della coppia, ridonati l’una all’altro, cambi il corso delle cose. "Sono felice" – esclama Admeto -, ma è solo un momento di illusione: La vita continuerà a riservare dolore, tristezza e sofferenza da cui l’unica che potrà liberarli, sarà la morte.
La nostra analisi potrebbe proseguire. Non troveremmo che conferme a questa lucida percezione dell’uomo di essere una creatura circondata da ogni parte dal dolore, anzi immersa in esso quasi come motivo esistenziale.
La tragedia dei tra tragici greci, sono il tentativo di una decrittazione, di una ricerca di qualcosa che possa andare al di là di un dolore che penetra ogni istante, senza che alcuna speranza, se non illusoria, possa scalfire il suo dominio.
Ecco allora il significato del grido di Platone: Oh! Se un qualche dio venisse a rivelarci qualcosa della verità!
Quel dio ( ma dobbiamo mettere la "D" in lettera grande) verrà, nella pienezza dei tempi e svelerà il segreto della vita umana, pellegrinaggio di dolore e sofferenze, ma capaci, queste, di redimere l’uomo dal male radicale: il suo voler essere autonomo, capriccioso, superbo, assolutamente libero.
Il Dio fatto Uomo, sulla Croce, morendo per il genere umano, anche per quelli che avevano – come Eschilo, Sofocle, Euripide – cercato, in affanno, i brandelli della verità, assumendo su di sé la sofferenza di tutte le generazioni, ne farà un mezzo di redenzione e di salvezza: Di una salvezza che significa unione con Dio, Sommo Bene, per una felicità intramontabile, che l’uomo viatore non è in grado di poter percepire.
Carmine Scaravaglione